di Francesca Volpe

L’ultimo rapporto della Piattaforma intergovernativa sulla biodiversità (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services – IPBES) fornisce dati allarmanti che confermano la gravità dell’attuale situazione ecologica:
- su un numero totale di specie vegetali e animali stimato in 8 milioni, circa 1 milione di specie sono a rischio estinzione (più del 40% degli anfibi, quasi il 33% dei coralli delle barriere coralline e più di un terzo dei mammiferi marini) e quasi 6 milioni di specie terrestri vivono in habitat insufficienti per una sopravvivenza a lungo termine;
- il livello medio del mare è aumentato dai 16 ai 21 cm dal 1990;
- il 23% dei suoli ha una produttività ridotta a causa della degradazione;
- dal punto di vista economico si calcola che fino a 577 miliardi di dollari di coltivazioni siano ogni anno a rischio a causa della perdita degli impollinatori;
- la produzione di plastica è aumentata di 10 volte dal 1980 e i consumi pro capite di materiali sono aumentati del 15% dal 1980;
- nel mondo vi sono più di 2.500 conflitti per i combustibili fossili, l’accesso all'acqua, al cibo, alla terra;
- tra il 2002 e il 2013 sono stati uccisi più di 1.000 giornalisti e attivisti ambientali.
Mentre gli Stati Uniti bruciano, le allerte meteo si susseguono, lo scioglimento dei ghiacciai avanza, è chiara la necessità di un’inversione di marcia e il superamento dell’illusorio fanatismo della crescita. C’è bisogno di un nuovo paradigma e, ancor prima, di una nuova visione. Una rinnovata visione, però, non può essere creata con la disperazione nel cuore. L’angoscia che le evidenze scientifiche suscitano, ci getta nello sconforto e nella paura. E la paura provoca due reazioni: la fuga o la paralisi. Ci induce quindi o a ri-fuggire dalla realtà negandola – si veda il cosiddetto negazionismo - o suscita un senso di impotenza, la paralisi del “ma tanto cosa posso fare io, piccolo, di fronte alla immensa crisi ecologica? Niente, tanto vale che continui con i miei comportamenti inquinanti”. Ci limitiamo quindi spesso a rimanere spettatori impauriti, negazionisti o inerti.
Ecco allora che, oltre al rigore enumerante del logos dell’ecologia (ecologia dal greco oikos - casa e logos - discorso, studio), al ragionamento sui dati scientifici che riguardano la “casa comune”, c’è bisogno di filia per la casa comune, di ecofilia, un amore partecipe e disinteressato in quanto scevro da velleità di dominio. Quello dell’ecofilia è un sentire che affonda le radici nella riscoperta della “nostra natura fatta di Natura”, nella reviviscenza dell’intimità relazionale con gli elementi naturali, nel prendersi cura. L’esperienza del profondo benessere che deriva da tale riscoperta, potrebbe portare linfa vitale al processo di creazione di una nuova visione, sanando i tratti più cupi dell’ecologismo tradizionale e colmandone le lacune emotive e motivazionali.
Nel processo di risveglio dell’ecofilia, la prossimità sembra avere un ruolo importante. I trend di alterazione degli habitat, sia terrestri che marini, sono infatti meno severi o addirittura assenti in aree gestite da comunità locali. Come afferma lo stesso Papa Francesco nell’Enciclica Laudato Si’ sulla cura della casa comune, “l’istanza locale può fare la differenza”, è infatti lì “che possono nascere una maggiore responsabilità, un forte senso comunitario, una speciale capacità di cura e una creatività più generosa, un profondo amore per la propria terra”; bisogna pertanto, prosegue il Papa nella nuova Enciclica Fratelli tutti, rifuggire dai localismi ma “assumere cordialmente la dimensione locale perché possiede qualcosa che il globale non ha: essere lievito, arricchire, avviare dispositivi di sussidiarietà”.
Se i tanti “resistenti eco-eroi” che lavorano nelle nostre comunità per la costruzione di un presente migliore e di una società più sobria, equa e felice, riescono ad avanzare sfidando le pastoie e le storture del sistema, è con ogni probabilità perché, con la consapevolezza della grave situazione ecologica chiara nella mente, hanno la bellezza della casa comune negli occhi e nel cuore il fuoco di una profonda ecofilia.
Il sentire amorevole dell’ecofilia potrebbe altresì ispirare il recupero di innate inclinazioni umane, dissotterrandole dall’oblio a cui il sistema economicista-meccanicista le ha relegate, per una transizione felice verso un nuovo modello di sviluppo:
- dalla asserita competizione dell’homo oeconomicus alla naturale collaborazione dell’homo ecofilo;
- dall’appropriazione alla condivisione, tanto di idee, quanto di conoscenze, competenze, oggetti;
- dalla schiavitù del consumismo alla libertà della sobrietà;
- dalla società della delega, nella quale abbiamo perso capacità e potere di intervento in relazione ad aspetti fondamentali dell’esistenza come la produzione del cibo, alla società del fare, tramite il recupero delle abilità delle passate generazioni messe a sistema con le moderne acquisizioni;
- dalla tensione sull’avere all’attenzione all’essere, affinché si possa sostituire la bulimica società della crescita con la sana società dell’evoluzione.
Francesca Volpe, nata a Firenze, cresce selvatica tra campagna e città. Si laurea in giurisprudenza e si specializza in diritto dell’ambiente con un dottorato e svolge diversi anni di attività accademica. Credendo nella validità dell’affermazione “sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”, attua nell’agriturismo di famiglia le buone pratiche di sostenibilità sulle quali svolge la sua attività di ricerca.

È autrice di articoli su temi ambientali e su stili di vita improntati alla riduzione degli sprechi e del libro “La Toscana in Renault 4. Viaggio sui sentieri dell’ecofilia e della libertà”, Infinito Edizioni, 2020.