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Homo Viator. Il Pantanal del Mato Grosso.

di Alex Balloni




Esistono luoghi che immagini di poter vivere soltanto in sogno, e poi, all'improvviso, capita l'occasione che aspettavi da una vita e con una spesa limitata ti trovi ad organizzare un viaggio intercontinentale fuori dal comune. La meta era la zona umida più estesa del pianeta, 150.000 km quadrati di palude a sud della foresta amazzonica, il Pantanal. Quest'area geografica si può visitare solo per quattro mesi all'anno, gli unici secchi e freschi, mentre per il restante periodo tutto rimane sommerso dalle acque che scendono dalle Ande, la seconda catena montuosa della Terra. Lasciata l'Italia in quattro, in una calda estate che sembrava non voler finire più, sotto un forte temporale e ad una temperatura di 10 gradi, arrivammo in piena notte nella megalopoli di San Paolo, una tra le dieci città più popolose al mondo con 13 milioni di abitanti, ma con altrettanti nell'area urbana. Il giorno successivo iniziammo l'avvicinamento alla nostra destinazione che negli sterminati spazi brasiliani comportava un volo locale e l'utilizzo di un auto a noleggio. Dopo una notte di riposo, al risveglio ci attese una splendida giornata, luminosa e temperata, che iniziò con una dolcissima bevanda al Guaranà, una radice energizzante molto diffusa in tutto il Paese.

L'itinerario prevedeva l'attraversamento di un territorio ricco di fazende fino a Poconé, ultima cittadina prima dell'ingresso nella intrepida strada sterrata della Transpantanera che avremmo dovuto percorrere per altri 200 km fino all'ultima e decisiva tappa nel cuore del Pantanal. Tra mille imprevisti, tra cui la difficoltà a cambiare il denaro in un'area remota dove praticamente nessuno accettava la carta di credito, finalmente superammo l'insegna che segnala l'ingresso nella maestosa area naturale patrimonio dell'Unesco, ricordando che lo avremo fatto a nostro rischio e pericolo e che per arrivare a destinazione (Porto Jofre, 196 km in direzione sud sull'unica sterrata disponibile), avremmo dovuto superare ben 140 ponti di legno molti dei quali instabili e prossimi a cedere. Sui lati del tracciato polveroso si aprì subito un gigantesco acquitrino con sterminate distese di caimani, immobili al sole e con le fauci spalancate e da lì a poco incontrammo una coppia di casuari, una specie imparentata con lo struzzo, colorati di blu e rosso che sembravano sospesi sull'acqua coperta di piante galleggianti.In breve ci trovammo immersi in uno spettacolo della natura senza paragoni: il cielo sopra le nostre teste era pieno di uccelli appartenenti a decine di specie diverse e di dimensioni inconsuete, come aquile, avvoltoi, fenicotteri e cicogne che volteggiavano liberi e in apparente armonia. Vedemmo che i caimani si contendevano le isolette e gli spazi asciutti con i capibara, un buffo roditore che si muove in branco e che nuota molto bene ma che soprattutto non conosce il pericolo.

Man mano che andavamo avanti la strada peggiorava per le buche e per i ponti fatti con vecchie tavole di legno, all'apparenza del tutto instabili, tanto che se vi era una traccia laterale che sfiorava la palude, significava che il ponte non era sicuro e che era preferibile infilarsi nel fango seppur con il rischio di rimanere bloccati. Alla fine del pomeriggio il cielo diventò rosso porpora e la vegetazione cominciò a diventare sempre più fitta, finché il sole si nascose tra gli alberi e sopraggiunse il buio più totale. Proseguimmo con molta apprensione, eravamo nella foresta adesso, guidati solo dai fanali della nostra auto. Ad un certo punto ci accorgemmo che accanto alla sterrata c'era una strada migliore, ampia e ben battuta, così decidemmo di prenderla anche se poco dopo una forte luce ci illuminò, si fecero avanti dei militari che ci circondarono e ci spiegarono che, incredibile ma vero, avevamo imboccato una pista di atterraggio. Stupiti e imbarazzati, ci scusammo e riprendemmo il nostro percorso. In piena notte arrivammo ad un punto dove la strada finiva dritta in un fiume, lì chiedemmo ad un pescatore che ci disse di tornare indietro e ci indicò come raggiungere l'unica pensione esistente in tutta l'area. La mattina seguente ci svegliammo in un nuovo verdissimo paradiso terrestre lungo l'imponente fiume, circondati da alberi pieni di scimmie, con pappagalli blu e tucani che ci volavano intorno.

Raggiungemmo a piedi il villaggio più vicino e affittata una piccola imbarcazione, per l'intera giornata navigammo sulle acque lente e pullulanti di vita. Ci trovammo a pochi metri da tre giaguari e osservammo a lungo la dinamicità di migliaia e migliaia di uccelli acquatici di indescrivibili colori e delle più varie dimensioni.Nonostante le insidie degli insetti (la puntura di un imenottero mi fece gonfiare una mano, poi curata dai locali con aloe tagliata a fette), il tempo passato in questi luoghi fu qualcosa di stupefacente, denso di avventura, di fascino, di contemplazione, verso un bene preziosissimo che è necessario conservare a tutti i costi, la grande natura selvaggia che ancora resiste alla tumultuosa pressione del nostro tempo.


Alex Balloni è un "viaggiatore seriale".

Da trent'anni, con i suoi scatti raccoglie il giro per il mondo l'essenza dei luoghi e delle persone traendone singolari racconti.


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