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Homo Viator - Il deserto del Buddha

Note di viaggio in terra di Ladakh



L'incredibile strada che parte da Srinagar, capitale islamica del politicamente tormentato Kashmir indiano, e che sale verso i 4.000 metri dei passi himalayani per incontrare il confine con il Ladakh e poi scendere fino a Leh, è un infinito serpente d'asfalto, ghiaia e sabbia tracciato tra le nuvole. Il percorso, chiuso per 8 mesi all'anno a causa dei muri di neve che impediscono il passaggio, necessita di almeno due giorni di viaggio.

E il cinque di giugno e lasciata prima dell'alba la fertile vallata che sorge intorno al lago di Srinagar, a bordo di una vecchia Land Rover saliamo abbondantemente fino alla foresta sempreverde del Sonemarg, dominata dall'imponente massiccio innevato del Mount Kolahoi. Ejaz, il driver, si ferma per una sosta: no, lui non può fare colazione perché è giorno ormai e c'è il Ramadan, ma mi indica quello che sembra un piccolo bar e mi invita ad entrare mentre lui ne approfitterà per sdraiarsi sul sedile posteriore.

Entro nel locale, sono l'unico cliente e chiedo all'uomo che si è appena alzato da un giaciglio ricavato sul pavimento di uno stanzino posto vicino al bancone, se si può mangiare qualcosa. Scrambled eggs, mi risponde e senza che glielo chieda mi prepara un the bollente e zuccherato servito in bicchiere di vetro. Guardo fuori dai vetri dell'ingresso e osservo i variopinti piccoli camion della Tata che uno dopo l'altro si rimettono in moto e riprendono a salire.


Il locale è piccolo e apparentemente pulito, colorato di azzurro, verde e rosso, come la maggior parte dei mezzi che scorrono lungo la strada. L'uomo, ancora palesemente assonnato, è andato a friggere le uova nello stanzino dove stava dormendo e quando torna, me le porge dentro a un piatto con due fette di pane bianco in cassetta.

Non c'è forchetta e neppure un cucchiaio perché da queste parti si mangia con le mani. Non è la prima volta che mi accade e allora, da buon occidentale, tiro fuori dallo zaino il mio gel e solo dopo essermi disinfettato inizio a mangiare. Mentre bevo il the, osservo ancora una volta l'itinerario sulla mappa che ho stampato in preparazione del viaggio e dove ho apportato correzioni e appunti ogni volta che se n'è presentata l'occasione.

Il driver sale ora verso Dras, una piccola e anonima stazione mercantile posta a cavallo tra la catena del Karakorum e la dorsale Himalayana, in quella terra di confine tra India e Pakistan dove si sono combattute tre guerre e dove lo scontro armato, magari limitato a qualche colpo di fucile, è sempre possibile.

"Non c'è nulla qui" dichiara Ejaz, ovviamente dal punto di vista naturalistico c'è dell'altro e molto altro, ma se si guarda all'aspetto umano, in effetti non c'è quasi nulla, se non la strada che comincia a farsi davvero stretta e a riempirsi di buche, e le postazioni militari nascoste tra le rocce.

La foresta è ormai alle nostre spalle e il panorama mostra adesso estese praterie che come verdissimi specchi d'acqua si adagiano nel cuore di ampie conche vallive.

Le vette vigilano silenziose, immerse in un cielo straordinariamente limpido che propone una luce penetrante, colori vividi e odore di pulito.Queste sono le alte terre che in estate vengono frequentate dai pastori nomadi di lingua Urdu che lasciano i fondovalle distanti molti chilometri, per portare le greggi a pascolare le fresche erbe d'alta quota. Ci sono uomini e donne, bambini e vecchi, intere famiglie con cani, asini, piccoli cavalli mongoli, tendaggi e recipienti per il latte ma soprattutto ci sono pecore e capre, a migliaia lungo il tragitto, e in particolare le capre Changthangi da cui si trae la famosa lana di Kashmir.

Nel pomeriggio raggiungiamo Kargill, una sorta di piccola "città franca" completamente isolata nelle spiazzanti distese aride di questa remota regione del pianeta, in cui dominano il verde delle bandiere islamiche e i ritratti dell'Ayatollah Khomeini. Un atmosfera severa, apparentemente pronta alla rivolta e al sacrificio, pervade l'aria. Ciò non mi impedisce di fare un giro nel piccolo ma straripante bazaar, di mangiare tre banane e di scambiare qualche parola con i venditori. Il driver ne approfitta per raggiungere un folto gruppo che si è riunito sotto un tendone per la preghiera. Mi avvicino e assisto alla forte devozione degli uomini inginocchiati che, sotto la guida di un imam, recitano tratti del Corano e si muovono all'unisono come un solo corpo tenuto insieme dalla fede.

La mattina seguente, intorno alle otto, lasciamo l'alberghetto che ci ha ospitati e mentre Ejaz appare in splendida forma, io porto con me il peso delle ore insonni dovute all'altitudine e ai canti del muezzin che a intervalli regolari ha annunciato che nella vicina moschea stavano iniziando le preghiere notturne.

Il punto di arrivo, dopo qualche ora di viaggio, è Lamayuru, un tradizionale borgo del Ladakh dove ha sede un importante monastero buddhista. La regione del Ladakh, amministrativamente inquadrata nello stato indiano di Jammu e Kashmir, è geograficamente e culturalmente la porzione più occidentale del Tibet, con il quale condivide la storia, le abitudini, le etnie e i deserti di alta quota.

L'ingresso nella regione è quello tipico dei paesi asiatici, segnalato da una insegna posta al di sopra della carreggiata e da un cartello che in questo caso ne ricorda la bellezza (beautiful Ladakh): una verità che si esprime in un contesto ambientale assolutamente unico e del tutto spiazzante per un europeo.

D'un tratto, compaiono le bandierine di preghiera buddhiste e l'architettura delle poche case che si trovano lungo la strada cambia vistosamente.


I passi himalayani sono immersi nella luce e la roccia, minuta e disfatta, grigia, ocra e aranciata, che colora un quadro irreale, potentemente quieto e, più che ameno, infinito.

Quando giungiamo a Mulbeck incontriamo alcune Royal Enfield, le moto di qualche avventuroso turista che è risalito da Leh e che ora si gode una bibita in un bar improvvisato in una vecchia dimora di legno e pietra, posta di fronte alla parete di roccia che ospita la millenaria scultura rupestre del Buddha Maitreya. Si tratta del Buddha del futuro, colui che secondo la letteratura di tutte le tradizioni buddhiste, sarà l'ultimo a comparire sulla terra, colui che otterrà la completa illuminazione e unirà i fedeli delle varie scuole.

Nel luogo di culto si accede senza difficoltà e ai piedi del gigante di roccia c'è una cappella votiva a cui fa da guardiano un giovane monaco. "Tashi delek", mi dice sorridendo, ed io ricambio pronunciando il medesimo saluto che letteralmente significa "a te che mi leggi il cuore" ma che assume il valore di augurio di pace e di benevolenza.

Mentre con il naso all'insù guardo i lineamenti della imponente figura che occupa la parete verticale che si erge solitaria sopra la valle del Wacka river, una famiglia, composta dai genitori e da due bambini piccoli che potevano avere cinque e sette anni, si avvicina, mi saluta, dona dei minuscoli fiori e, dopo aver chinato il capo davanti al Buddha, unisce i palmi delle mani iniziando a recitare il mantra che accompagna tutta la vita di un tibetano.

"Om mani padme hum" ripetuto più e più volte, risuona lieve nell'aria, segnato dalle diverse tonalità delle voci ed in particolare da quelle soffici e graziose dei bambini.Mi siedo a terra, chiudo gli occhi e li ascolto con attenzione, lasciandomi trasportare dal mantra che rimbalza sulla parete di roccia, che entra ed esce dalla porta della cappella, sibila nel vento e che, come una ruota che gira, ripropone il suo suono senza pausa, senza tempo.


Siamo di nuovo in viaggio e nel paesaggio desertico appare qua e là qualche albero: salici, pioppi, ma per lo più albicocchi che emergono vicino ai corsi d'acqua, dai muretti a secco che si affacciano sulla strada o da piccoli appezzamenti coltivati a cipolle, patate e orzo.La maestria dei tibetani nel rendere produttiva qualche porzione di terreno arido portandogli l'acqua con una incredibile rete di piccoli canali è insuperabile.

Il piccolo Tibet, questo è l'altro nome del Ladakh, è ora un dedalo di torrenti copiosi che solcano gli altopiani e si infilano tumultuosi nelle forre argetee, sormontate da grossi massi instabili trascinati in tempi remoti dai ghiacciai e poi lavorati dalle tempeste invernali.

Ai margini della strada, tornata di nuovo asfaltata, lavorano per la compagnia nazionale indiana giovani uomini bassi di statura e con i tratti somatici tipici delle genti che vivono su queste montagne o che arrivano dal Nepal in cerca di qualche soldo che la dura manovalanza estiva può offrire. Intanto, colonne di mezzi militari si muovono su e giù, spostando reclute ed esperti graduati lungo la linea di confine più calda del mondo che in questo lontano triangolo d'India settentrionale la mette in contatto, e in continua frizione, non solo con il Pakistan ma anche con la Cina.

Arrivati a destinazione Ejaz si concede un the e poi, come se niente fosse si rimette in moto per tornare a casa. Ci diamo la mano e poi ci abbracciamo, e considerata la sua costanza è possibile che decida di guidare per dodici o quindici ore quasi senza sosta pur di tornare a casa (il tempo di percorrenza cambia in relazione alla possibili frane, agli incidenti o ai controlli militari).

La giovane e piacevole Osel mi accoglie in una spartana stanza della Guest House che è in piena ristrutturazione e mi offre come benvenuto una ciotola di zuppa d'orzo e verdure.

Lamayuru è un luogo ad elevata spiritualità.



Il suo monastero è uno dei più antichi del Ladakh e in questi giorni vi si celebra la festa annuale.E' percepibile una certa frenesia, perché oltre ai monaci, con le loro straordinarie danze evocative, partecipano all'evento tutti i residenti e qualche straniero come me.

Osel mi invita a salire verso il culmine dello sperone roccioso dove sorge il monastero e così iniziamo a camminare tra i vicoli dell'abitato ma il mio passo è lento è un certo mal di testa conferma la mia difficoltà ad abituarmi a queste quote.

Nel complesso religioso si apre un ampio cortile ed è qui che avverrà la festa, questo è lo spazio che vedrà protagonisti i "monaci volanti" adornati con le loro maschere spaventose, allegoria dell'arroganza dell'io, della sofferenza e della morte che vengono sconfitte dall'illuminazione, dal risveglio della mente, dalla consapevolezza del Buddha che potenzialmente risiede in ognuno di noi.



Nel gompa, la sala di preghiera, sono radunati alcune decine di monaci di tutte le età perfettamente rasati e avvolti nelle loro vesti amaranto.

L'abate svolge la puja, la funzione propiziatoria affinché la festa si svolga con successo e rechi pace a chi vi partecipa. La lettura dei testi scritti su dei sottili fogli di carta avvolti in un astuccio circolare che ogni monaco conserva scrupolosamente con sé, si sussegue a voce alta, seguendo un ritmo ondulare, monocorde, ipnotico. Nella penombra della sala ricolma di tappeti, tanka colorati, immagini votive e lumini al burro di yak, i corpi dei religiosi oscillano lentamente su di un lato e poi sull'altro, mentre i loro occhi socchiusi segnalano la presenza di una concentrazione e di una conoscenza profonda, di una forza reale, frutto del loro studio e della loro fratellanza che inevitabilmente coinvolge anche gli estranei che assistono alla funzione. Lo scoppio sonoro delle inconfondibili trombe tibetane rimescola all'improvviso quell'atmosfera sospesa e mi riporta ad un'altra attenzione, quella dell'essere qui ed ora, nella pienezza della mia individualità, nella veglia del quotidiano agire.



Quando la puja si conclude accetto di buon grado la benedizione dell'abate che si accorge della mala di legno di sandalo che porto al collo e mi sorride compiacente.

Ringrazio e saluto Osel, cammino per qualche minuto e mi fermo appena fuori la cittadella del monastero, nei pressi di alcuni piccoli stupa imbiancati di calce.

Osservo le creste delle montagne, la loro ombra che si adagia sulla stretta valle e il vociare di qualche piccolo uccello intento a mettere su casa e famiglia.

Dov'è la mia? Lontana, ma percettibilmente vicina in questa mia esperienza di viaggio in solitudine.

Om mani padme hum, il mantra del Bodhisattva che rinuncia al nirvana per dedicarsi a salvare tutti gli esseri senzienti, risuona morbido e armonico anche dentro di me, dissolve i dubbi e mi consegna ad uno stato di quiete che non ha eguali.

"Ogni essere vivente rifugge il dolore" diceva Siddharta Gautama, il Buddha Sakiamuni.

Secondo la tradizione, lontano dalle lussureggianti foreste che lo hanno ospitato, dalle molte vissute vissute, dalle effimere esistenze che ha incontrato, Siddharta ha risalito la valle dell'Indo fino a questi deserti montani attraverso la voce dei monaci e dei "santi" che hanno insegnato il "dharma" e che del deserto hanno fatto giardino per chi ha accolto il loro messaggio.


Chi "prende rifugio" nel Buddha (non un dio ma un essere umano) si pone su un cammino che ha lo scopo di comprendere la natura ultima della realtà.

Tra i sassi e la polvere di questo mondo alla fine del mondo, si rende plausibile questa possibilità. Non mi resta che attendere l'arrivo della sera e poi della notte, quando milioni di stelle appariranno nella volta celeste. Quella sarà l'occasione per meditare sull'occasione che mi viene data... sulla trasformazione che mi viene offerta e che si offre a ognuno di noi.



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