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Verso Occidente

Propongo qui il prologo del romanzo in vendita nelle librerie e on-line, anche in formato e-book.


La notizia arrivò tramite un social network locale e fu immediatamente

rilanciata dalle principali reti TV della Malesia:

un gruppo di Senoi Chewong era letteralmente scomparso,

svanito nel nulla. I Senoi, sono parte dei cosiddetti Orang Asli,

ovvero gli aborigeni, gli "uomini delle origini", una denominazione

generica che designa vari gruppi etnici originari della

penisola della Malacca e delle isole vicine. Ufficialmente ne

sono state censite 18 tribù suddivise in tre gruppi principali secondo

le loro lingue e i loro costumi: i Semang che vivono nella

zona settentrionale della penisola, i Protomalesi prevalentemente

collocati nel meridione e i Senoi, abitanti delle regioni

centrali.

Gli Orang Asli hanno caratteristiche tipiche degli australoidi,

sono considerati fra i gruppi etnici più antichi del sud est

asiatico e sono in parte ancora dediti alla caccia, alla pesca, alla

raccolta e restano legati alle loro tradizioni ancestrali. John

Winslow li ricordava soprattutto per gli studi che lo psicologo

e antropologo americano Kilton Stewart aveva dedicato alla

loro particolarissima cultura dei sogni che, secondo le sue scoperte,

aveva donato ai Senoi un assetto sociale stabile e una

bassa incidenza di disturbi mentali, rendendoli una comunità

in cui il benessere generale e la pace sembravano garantiti dalla

elaborazione e dalla condivisione delle loro visioni oniriche.

Ora, mentre sorseggiava qualcosa di fresco seduto in un affollato

bar dell'aeroporto di Kuala Lumpur, ascoltava incuriosito

la notizia che veniva diffusa dal grande schermo che campeggiava

nella sala dei check in. Il gruppo, che viveva in una foresta sopravvissuta ai tagli che le multinazionali della palma da olio avevano praticato senza risparmio nella loro regione,

non dava più notizie di sé da oltre un mese. Sul posto si era recato

l'ufficio nazionale per i nativi, la polizia e infine una squadra

di ricerca dell'esercito ma le indagini avevano dato esito

negativo. Il loro villaggio era stato abbandonato ma tutto era

rimasto al proprio posto: gli indumenti, il cibo, gli attrezzi utilizzati

nella foresta erano ancora lì, come se gli abitanti dovessero

rientrare da un momento all'altro. Non c'era alcuna spiegazione

logica ma, di fatto, era come se quella gente si fosse

dissolta senza lasciare alcuna traccia. Sebbene si stesse parlando

di indigeni animisti mai completamente conosciuti fino in

fondo e tanto meno assorbiti dalla civiltà e dalla modernità, era

quantomeno singolare che nell'era della tecnologia avanzata e

dei satelliti che scrutano ogni angolo del pianeta, un gruppo di

oltre 100 persone potesse far perdere completamente le proprie

tracce.

Non era la prima volta che John si trovava in Malesia. Come

inviato del National Geographic vi era già stato alcuni anni

prima in occasione di una conferenza internazionale sul clima

e questa volta era volato dall'Inghilterra per un servizio fotografico

sul Borneo e sull'arcipelago che si estende tra le acque

di Celebes e quelle di Sulu, luoghi che erano stati definiti come

"gli ultimi forzieri della natura", con una impenetrabile e antichissima

foresta pluviale e isole bellissime e selvagge.

Era arrivato a Kuala Lumpur quindici giorni prima e suonato

da oltre 13 ore di volo, aveva smaltito il jet lag in un albergo

non lontano dalle imponenti Torri Petronas, una coppia di

grattacieli alti 451 metri, costruiti in vetro e acciaio e decorati

con motivi islamici, uniti da un incredibile ponte sospeso aperto

al pubblico. Il giorno seguente, aveva visitato il Palazzo del

sultano Abdul Samad e si era fatto un lungo giro a piedi nel centro della città, in buona parte modernissima, abitata da malesi

ma anche da molti cinesi e che nella sua caotica frenesia,

era quanto di più diverso si potesse immaginare rispetto a

quella che era la destinazione del suo viaggio.

Il clima equatoriale, caldo, umido e piovoso tutto l’anno

non gli piaceva, ma l'idea di poter visitare luoghi ampiamente

incontaminati e fuori dalla portata dei comuni mortali lo attirava

come una mosca sul miele. L'impegno e la fatica legati a

lunghe escursioni nella giungla, sarebbero stati ripagati da

quello che avrebbe visto, dagli incontri che avrebbe fatto, dalle

sensazioni che avrebbe provato. Non era quello il motivo per

cui era così attratto dalle meraviglie del pianeta e dalle civiltà

meno conosciute? Quattro volte all'anno partiva per luoghi incredibili

e vi restava per due o tre settimane scattando foto e

scrivendo i suoi reportage: era esattamente quello che voleva e

che amava fare. Tuttavia, tra meno di un mese avrebbe compiuto

trentacinque anni e ancora non si era deciso a mettere la

testa a posto: non aveva legami sentimentali e non un lavoro

stabile. Il contratto annuale con la prestigiosa rivista gli dava

una certa garanzia economica ma era pur sempre qualcosa di

temporaneo e tutto gli appariva in bilico, provvisorio, precario.

Nel suo volo da Londra, aveva a lungo pensato se non fosse

stato il caso di scendere a patti con la vita cercando la stabilità

di un impiego che lo ancorasse in qualche posto, vivendo in

una casa che non fosse quella di famiglia e amando a tempo

pieno una donna che potesse dargli un figlio: insomma quello

che cercano e che fanno le brave persone che aveva conosciuto

in tutti continenti. Quando però aveva messo piede a Kota Kinabalu,

capitale del Sabah, chiamata “la terra sottovento” perché

risparmiata dai monsoni e bagnata dalle lunghe onde dell'oceano,

ogni possibile dubbio su quello che stava facendo e sul suo personale stile di vita perse di consistenza. Davanti al colore azzurro del mare e alla splendida barriera corallina che

qui miracolosamente pareva resistere al devastante fenomeno

dello sbiancamento che ne causa la morte, si rilassò, deciso a

cogliere il massimo possibile anche da questo nuovo viaggio.

Dopo un giorno passato a Kota Kinabalu, John Winslow si

imbarcò per attraversare il parco marino Tunku Abdul Rahman

e raggiungere Gaya Island, un meraviglioso lembo di terra

che ospita curiosità faunistiche come il megapode, o Burung

Tambun, un pennuto simile a un uccello preistorico dalle enormi

zampe che miagola come un gatto e depone le uova sotto

grandi mucchi di foglie e sabbia sulla riva del mare. Sull'isola

si trova Police Bay, una spiaggia di sabbia bianca di ineccepibile

bellezza, fine come il borotalco e bagnata da acque color

smeraldo da cui si vede il Monte Kinabalu, un gigante di ben

4.095 metri, che dà il nome al grande parco naturale di 754 chilometri

quadrati censito come Patrimonio dell’UNESCO.

In quel luogo da favola, scattò una foto indimenticabile del tramonto

sulla spiaggia, confidando che sarebbe finita sulla copertina

del National.

Nei giorni che seguirono, ebbe l'opportunità di realizzare

molte altre immagini da incorniciare e tra queste, alcuni ritratti

di orango: dapprima quelli di alcuni esemplari ricoverati presso

il Sepilok Orangutan Rehabilitation Centre e successivamente

quelli di altri, in libertà, raggiunti grazie a una eccellente

guida locale che lungo una pista scarsamente battuta lo aveva

condotto all'interno dell'isola, nei recessi della foresta pluviale

che si estendeva su 22 milioni di ettari di territorio montano.

Oltre che dagli oranghi, la sua attenzione era stata catturata

da un'altra specie protetta, la nasica, una scimmia arboricola

dal caratteristico manto arancione, la pancia prominente e il grande naso da cui prende il nome, da lui incontrata nel santuario

di Labuk Bay.

Quella parte del Borneo, la terza isola più grande del pianeta,

con le sue foreste, la flora e la fauna, le acque ineguagliabili,

le isole e i fondali di Sipadan, rappresentava realmente una

sorta di paradiso in terra: forse l'ultimo, visto quello stava accadendo

al pianeta. A Sipadan, che certamente meritava la

fama di cui godeva, un'immensa diversità biologica aveva permesso

ai ricercatori, nel solo arco di un decennio, di identificare

oltre 360 nuove specie animali mentre nel resto del mondo

ne andavano perse migliaia ogni anno. Al termine del lavoro,

prima di rientrare in Europa, si era concesso un paio di giorni

di riposo in una cittadina della costa e li aveva dedicati a fare

delle lunghe nuotate, a visitare qualche negozietto di souvenir

e a comprare frutta fresca al mercato.

La telefonata di Carla, sua madre, arrivò qualche ora prima

dell'imbarco sul volo che l'avrebbe riportato a Kuala Lumpur

mentre stava mangiando allo Spicy Island, un ristorante tradizionale

nel Sutera Harbour di Kota Kinabalu. Suo padre,

Adam Clayton Winslow, stava per andarsene. Questa volta, la

malattia che lo aveva colpito da due anni, si era manifestata in

tutta la sua gravità e ora giaceva in un letto di ospedale della

contea del Devon. Gli restavano pochi giorni e Carla gli aveva

chiesto di rientrare per dargli l'ultimo saluto. La notizia non lo

prese alla sprovvista, sapeva che prima o poi il vecchio combattente

avrebbe ceduto, che il famoso accademico e paladino

dei diritti civili, avrebbe dovuto abbandonare la corsa. Lo sapeva,

ma un grumo di saliva amara come il veleno gli impastò

comunque la bocca. Di Adam aveva amato soprattutto la libertà

intellettuale e quel suo modo di fare quieto, ragionato e talvolta

spavaldamente ironico. Decisamente meno gli era piaciuta

quella incomprensibile distanza che a un certo punto della sua vita aveva messo tra sé e la famiglia, concedendosi invece a braccia aperte agli amici, ai colleghi, ai suoi lettori e pure a

qualche avvenente studentessa del suo corso di storia contemporanea

all'università di Bristol.

Era stato un uomo velleitario e pratico al tempo stesso, che

non gli aveva mai fatto mancare niente e lo aveva sempre sostenuto

senza indugio nelle sue scelte, anche in quelle che riteneva

più bizzarre, come lasciare l'Inghilterra per andare a studiare

a Parigi. Immaginarselo senza più fiato, con lo sguardo

smarrito del topo in gabbia a cui non resta alcuna via di fuga,

lo rese triste e ancora più solo di quanto già si sentisse.

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