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Homo Viator. L'Africa dei nativi.


Di Alex Balloni



Era pieno inverno quando con mia moglie decidemmo di andare in Kenya in tenda.Un paio di settimane più tardi ci unimmo ad un gruppo di quattro avventurosi personaggi che nutrivano la stessa nostra sete di viaggio e di conoscenza ed organizzammo un itinerario piuttosto impegnativo.Arrivati sul posto ci attendeva un minivan con driver e la prima notte la passammo in mezzo alla savana, dentro ai suoi grandi spazi e all'intenso odore di polvere e di selvatico che da subito ci riempì le narici e i polmoni. Piazzammo il campo presso un vecchio bivacco ombreggiato da una gigantesca Acacia e mentre stavamo tirando su le tende, alcuni Masai si avvicinarono, ci osservarono e iniziarono a sorridere. Il fatto creò un poco di imbarazzo: intorno a noi c'erano figure alte e magrissime, dipinte di rosso su tutto il corpo, con chiome unte e intrecciate, cicatrici sul volto come tatuaggi, perline decorative ovunque e lance e scudi possentemente trattenuti tra le mani.

Ad un certo punto iniziammo a cercare legna per accendere il fuoco e cucinare ma appena raccogliemmo i primi rami secchi, il nostro driver ci segnalò che i Masai ci avvertivano che quella era roba velenosa e che le sue esalazioni ci avrebbe intossicato. Non so quanto fosse vero ma in effetti avevo letto su una guida che in quell'area cresce un'euforbia velenosa ed era possibile che stessimo raccogliendo proprio quella. Nell'incertezza ci affidammo al consiglio che ci era stato dato e finimmo per comprare la legna "buona" dai Masai.

La Savana è talmente affascinante durante il giorno quanto improbabile al crepuscolo e inquietante durante la notte: così mangiammo velocemente intorno al fuoco e ci affrettammo ad infilarci in tenda piuttosto intimoriti dagli strani rumori che provenivamo da lì attorno.Durante la notte si alzò un vento fortissimo, ululante, caldo e secco, che per poco non trascinò via il nostro accampamento. Mentre alla luce delle torce cercavamo di fissare nuovamente i picchetti, un facocero si avvicinò come per vedere chi fossero questi intrusi. Alla fine riuscimmo a dormire per un paio d'ore.

All'alba, indolenziti e desiderosi di una buona tazza di caffè, il sole apparì all'orizzonte come una sfera giallastra, inondando di luce il cielo, gli alberi e la terra polverosa.Durante la colazione un babbuino si presentò come possibile commensale ma senza troppa educazione tirò via la tovaglia dal tavolo, si impossessò di una confezione di biscotti e di una busta di latte, e subito dopo scappò verso sud senza che potessimo fare qualcosa.

Poco più tardi, un giovane Masai che indossava un vistoso orologio, una grande collana dorata e che si presentò come il capo del villaggio più vicino, ci chiese se volevamo visitarlo: noi accettammo e, come è nella prassi, lui ci indicò un prezzo che però trovammo del tutto inappropriato. Così offrimmo un'altra cifra e lui accettò immediatamente chiudendo la trattativa. Percorremmo un paio di ore di sentiero nella Savana e quando raggiungemmo il villaggio, di forma circolare, notammo che era circondato da una barriera fatta da spinosi arbusti di acacia: una difesa dagli animali selvatici che lo rendevano una specie di fortino invalicabile.

Il ragazzo capo ci invitò ad entrare e lo facemmo varcando una porta di legno sorretta da un posticcio groviglio di rami. In quell'atmosfera surreale, distante da tutto ciò che era il mondo a cui ero abituato e nonostante la mia esperienza di viaggi, ricordo che il cuore mi batteva forte ed ebbi qualche difficoltà a trattenere l'emozione.Le capanne, fatte di argilla e sterco di vacca, avevano la forma di igloo ed erano posizionate in cerchio.

Nel centro del villaggio si apriva una piazza polverosa, con le lance e gli scudi dei cacciatori posizionati a terra. I primi a venirci incontro furono una trentina di bambini che ci chiesero penne e caramelle. Poi vedemmo le donne, anch'esse alte e magre ma completamente pelate: notai che una di loro era sul tetto di una capanna e che maneggiava un impasto con cui provvedeva ad effettuare una riparazione. L'atmosfera era quella di un'epoca remota, alle origini della nostra specie e per un'attimo, ebbi qualche difficoltà a razionalizzare dov'ero e con chi ero.

D'improvviso gli uomini ci circondarono e iniziarono a saltarci intorno, facendo un verso con la bocca: una specie di "U" da cui usciva con forza l'aria che generava un suono ancestrale, molto simile a quello di certi primati. Furono sufficienti pochi secondi ed io e i miei compagni restammo come ipnotizzati. Quella che stavano facendo era una danza di benvenuto ma a noi stava provocando sensazioni molto forti, strane suggestioni che si placarono soltanto quando le donne iniziarono a cantare. Le voci femminili resero il tutto più sereno. Quando il rituale dell'accoglienza terminò, il ragazzo capo, che aveva 19 anni, che era l'unico che parlava inglese e che forse per questo era stato temporaneamente autorizzato a presentarsi come tale, mi venne incontro, mi prese per mano e mi portò dentro una capanna. Gli altri mi seguirono e non senza una vaga curiosità da antropologo, notai a terra le stoffe pesanti che fanno da stuoie per dormire, un piccolo forno d'argilla e alcune elementari suppellettili per cucinare.

Il ragazzo capo mi raccontò molto di quella comunità, ad esempio di come si accende un fuoco con lo sterco di elefante strofinando un legnetto con il palmo delle mani. Mi raccontò che quella Masai è una comunità nomade, che si sposta con il cambiare delle stagioni seguendo la fertilità del terreno: il motivo principale è che si tratta di allevatori e che gli animali hanno bisogno di grandi quantità di erba e poiché la savana è molto arida devono sempre stare in movimento. In genere le comunità dei villaggi sono cristiane ma poligame, l'alimentazione privilegia carne e latte e per i loro indumenti scelgono il colore rosso perché pensano che sia in grado di scacciare i predatori.L'Africa dei Masai fu per me un'impatto scioccante, e non di meno avvenne nei giorni seguenti quando incontrammo i Samburu, che a differenza dei loro "cugini" vivono in comunità stanziali intorno ai pochi laghi della regione.


Dai primi si distinguono anche perché non indossano stoffe sul busto, hanno copricapi più bizzarri con piume e perline, hanno armi diverse e le donne non si tagliano i capelli a zero. I Samburu sono più commercianti che allevatori.

Il viaggio in questa terra primordiale, ricca di colori, di odori penetranti, di incontri indimenticabili con gli umani e con la straordinaria natura di questi luoghi, è rimasto dentro di me come un tratto indelebile, come una emozione folgorante che in qualche modo rappresenta l'essenza di quel "mal d'Africa" che effettivamente ti può cogliere e non lasciare più.


Alex Balloni è un "viaggiatore seriale".

Da trent'anni, con i suoi scatti raccoglie il giro per il mondo l'essenza dei luoghi e delle persone traendone singolari racconti per immagini (e parole) .






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