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Il bosco di Mino




Giacomo Cosimo Santucci, per tutti Mino, lavorava come impiegato all'archivio della biblioteca centrale. Era un tipo riservato e silenzioso con un corpo magro, scaleno, i capelli castani arrotolati dietro le orecchie e pettinati all'indietro, gli occhi svegli e un naso leggermente prominente, sul quale portava un paio di occhiali pesanti, fin troppo grandi per un volto come il suo.

Era nato in periferia, quella dei casermoni tutti uguali e della gente che ti guarda dai terrazzini che perdono l'intonaco ed in periferia era rimasto anche quando erano morti i suoi genitori.

Un giorno, mentre nel cortile del condominio si divertiva a scambiare figurine con un amico che pesava tre volte più di lui, vide arrivare i carabinieri. Il maresciallo aveva chiesto informazioni alla signora che abitava al primo piano e questa gli indicò un muretto dove erano soliti sedersi i ragazzini dei caseggiati circostanti: "è quello là" disse, puntando il dito verso un tipo occhialuto con i pantaloni corti, le gambe secche e una maglietta rossa. Il militare si avvicinò e chiese conferma di chi fosse, poi lo accarezzò sulla testa e gli disse che lo doveva seguire. Mino aveva solo dodici anni quando mamma e papà se ne andarono. Erano volati giù dal ponte del raccordo anulare: una disattenzione, un guasto ai freni o chissà che cosa, fatto sta che la loro vecchia auto aveva superato il guard rail ed era finita venti metri più in basso, sul cemento grigio di un canale artificiale. Non aveva altri parenti e per questo fu affidato ad una casa famiglia che si trovava dall'altra parte della città, in una periferia identica a quella in cui era cresciuto ma con un nome diverso.

Non si può dire che a scuola fosse tra i migliori, però Mino se la cavava piuttosto bene in matematica e aveva la sufficienza nelle altre materie anche se in assoluto le sue preferenze andavano alla poesia, che amava tutta ma proprio tutta, da quella di Petrarca fino a Keats e Baudelaire, passando per il grande cantore di Recanati. Imparava con facilità i versi a memoria e a volte il professore glieli faceva recitare in classe ma solo dopo aver vinto con ostinazione la sua eccessiva timidezza.

L'adolescenza passò in fretta e non senza difficoltà. Nella casa famiglia non era riuscito a legare con nessuno e quando le cose si mettevano male perché un bullo prendeva il sopravvento o perché gli veniva da pensare alla sua solitudine, si chiudeva in se stesso come un riccio che faceva la palla e si isolava dal resto del mondo. Saliva allora in sella alla bici e girava su e giù per il quartiere finché un po alla volta iniziò a spingersi sempre più lontano: verso il centro, per sbirciare nelle vetrine dei negozi, oppure verso la campagna dove si incantava ad ascoltare il canto degli uccelli e lo stormire delle fronde degli alberi. Durante l'estate dava una mano alla gelateria che si trovava accanto alla parrocchia mettendo da parte qualche spicciolo che poi regolarmente spendeva comprando libri di poesie e certi dolcetti alla mandorla che acquistava in una pasticceria siciliana. Al mare c'era andato solo qualche volta e non gli era piaciuto un granché: troppa gente, troppa confusione, quasi come nell'ora di punta in città. Ogni tanto il parroco organizzava qualche escursione sulle colline o in montagna e in questo caso era subito pronto a partire. Durante la gita c'era da recitare qualche Ave Maria e un Padre Nostro ma era un impegno da poco rispetto al piacere di camminare sui sentieri in mezzo ai boschi e alla possibilità di dissetarsi a una fontana che grondava acqua fresca.

Quando Mino si diplomò gli organizzarono una festa a sorpresa. Pizza per tutti, aranciata e qualche birra: musica a cura del dj dei palazzi.

Era così imbarazzato che avrebbe voluto sparire. Cercò la fuga dopo pochi minuti ma fu bloccato da Silvia, l'operatrice sociale di cui si era perdutamente innamorato fin dalla prima volta che l'aveva vista.

"Silvia, rimembri ancora ..." ripeteva nella sua mente le parole del poeta, una sera dopo l'altra prima di addormentarsi.

Da quando aveva compiuto diciotto anni aveva iniziato a lavorare con una certa continuità e dopo il diploma fece un po di tutto: qualche mese come cassiere, poi come portalettere, lavapiatti, magazziniere, fino a quando arrivò un contratto a tempo determinato come aiuto archivista alla biblioteca centrale. Fu per lui come aver varcato la soglia di un mondo arcano e affascinate. Decine di migliaia di volumi, alcuni dei quali antichi di secoli che si presentavano ordinatamente in un vortice di narrazioni, saggi, teorie, calcoli e immagini, a dimostrare quanto fosse limpida e contorta al tempo stesso la mente umana. Con il primo stipendio prese in affitto un monolocale. Si appassionò al lavoro e, nonostante il suo ermetismo, fu preso a ben volere dal direttore. Quando c'era la pausa per il pranzo si recava ai giardini comunali dove mangiava il panino che si era preparato e sorseggiava un succo di frutta. Guardava gli alberi, il loro mutare con il passare delle stagioni, gli eleganti bianchi cigni del laghetto, gli scoiattoli grigi che salivano e scendevano sul robusto tronco di una quercia, osservava il passaggio delle nuvole in cielo e si scopriva a fantasticare mentre qualche endecasillabo prendeva forma nella sua mente. Fu lì che conobbe Alice. Un venerdì di metà giugno lei gli chiese se poteva sedere vicino a lui e poiché sulla panchina c'era posto per due, Mino non poté dirle di no. Accennando un breve sorriso le disse "prego" mentre il cuore batteva all'impazzata e gli occhi fissavano il terreno. Alice era una ragazza dai capelli rossi, ricci e profumati che lavorava nel bar del parco e che l'aveva notato da tempo. Lo aveva incuriosito quel suo starsene in disparte, quella sua aria rilassata di uno distaccato dalle vicissitudini del mondo, quel suo sguardo innocente che si affacciava oltre gli occhiali. Alice aveva la sua età, una famiglia con un fratello più piccolo e uno più grande, un corpo ben fatto e un volto anonimo che aveva un che di compassionevole. Dire che i due si innamorano non è corretto, nel senso che per Mino quella fu una passione travolgente (la prima ed unica delle sua vita) mentre per Alice fu un tentativo di frugare nell'animo umano, all'interno di qualcuno che gli pareva diverso da tutti gli altri. La loro storia fu per Mino un ciclone inatteso, una marea montante, un'onda gigante che lo sollevò sulla cresta più alta della vita per poi sbatterlo sul fondo di un mare in tempesta. Andavano al cinema, mangiavano qualcosa in un'osteria della città vecchia, passeggiavano lungo il fiume e alla domenica facevano all'amore nel monolocale. Furono in tutto otto settimane, fu giusto quello il tempo in cui il ragazzo ossuto e con gli occhiali troppo grandi, romantico e taciturno, parve uscire fuori dal suo guscio. Quando Alice lo lasciò con un laconico messaggio inviato per telefono, senza alcun preavviso, senza un disaccordo e meno che mai un litigio, per Mino si spalancò la porta dell'inferno. Al lavoro si dette malato, anzi era malato, perché rifiutava il cibo e non dormiva e quando alla fine si presentò davanti al medico questo ne dispose il ricovero in ospedale. Ci passò quindici giorni e nessuno andò a trovarlo. Non un collega, non il direttore della biblioteca che tuttavia gli inviò auguri di pronta guarigione. Aveva ventuno anni e davanti ad una scodella di brodo tiepido, tra i lamenti del vecchio male in arnese che giaceva nel letto accanto al suo, si chiese che cosa ne sarebbe stato di lui. Quando tornò al lavoro uscì il concorso per il posto fisso. Mino studiò giorno e notte per sei mesi (per quale motivo ci fosse così tanto da studiare per un posto da archivista era un mistero), poi fece l'esame e lo superò. Quando entrò in servizio nella nuova veste di autentico impiegato, si trasferì in un piccolo appartamento di un caseggiato pulito e decoroso adeguato alla sua migliorata condizione sociale.

Nel primo tratto di strada lungo il percorso per andare al lavoro, si estendeva un muro di mattoncini rossi che recintava quella che doveva essere stata una fabbrica.

Un giorno fermò la bici presso il cancello d'ingresso e guardò all'interno. Il grosso complesso industriale aveva in effetti ospitato una fabbrica di gomma, come si poteva ricavare dalla scritta che era ancora presente su un cartello arrugginito.

Nel quartiere c'erano dei giardinetti ma non c'era un parco come quello collocato vicino alla biblioteca, eppure, quella primavera Mino sentiva nell'aria come un odore d'erbe fresche, il costante vociare di uccelli, insomma suoni e odori ben poco cittadini. La cosa lo incuriosì a tal punto che si chiese se ciò che sentiva venisse da qualche parte dentro alla fabbrica abbandonata.

Un pomeriggio, con le luci del tramonto che attraversavano la città, decise di fare una follia. Aveva notato che su di un lato del muro, tra spine, cartacce e bottiglie di plastica abbandonate, c'era un foro: un buco che con la sua magrezza avrebbe facilmente potuto oltrepassare. Così si guardò in giro, incatenò la bici ad un palo della segnaletica stradale e, non senza essersi impigliato tra i rovi, riuscì a penetrare all'interno. Il luogo aveva qualcosa di surreale e appariva come se quelli che ci avevano lavorato, l'avessero lasciato all'improvviso. Nell'ampio cortile c'erano un furgone seduto sui pneumatici sgonfi, pile di materiale ancora imballato, cumuli di foglie secche che si muovevano a mulinello sotto la spinta dell'aria fresca mentre all'interno c'erano enormi stanzoni con strani macchinari, il laboratorio chimico con ancora gli strumenti sui tavoli impolverati, la mensa con gli scaffali pieni di piatti e posate e, in fondo ad un corridoio, un distributore di bibite e di caffè vagamente saccheggiato.

Più Mino si addentrava nell'edificio più gli sembrava di essere una sorta di esploratore, colui che aveva scoperto quel che restava di un'epoca sepolta, il protagonista di un'avventura comparabile a quelle che aveva letto sui libri che gli erano passati tra le mani. Poi, si accorse che in fondo ad un magazzino c'era un portone semi aperto da cui sgorgava una luce fioca, rosata, l'ultima prima dell'arrivo del buio. Lo raggiunse e lo aprì, lasciando che stridesse mentre raschiava il pavimento. Quello che gli apparve fu qualcosa di totalmente inaspettato perché oltre il portone c'era un bosco, un fitto e odoroso connubio di alberi con tanto di liane, forme contorte e i possibili misteri di una foresta nascosta.

Non era quello il momento giusto per andare oltre e così tornò sui suoi passi facendosi luce con la torcia del telefono.

Passò attraverso il buco nel muro, montò in sella e sparì nella notte.

Nelle ore che seguirono immaginò che cosa avrebbe potuto trovare in quello spazio verde nascosto alla città e ai suoi abitanti. Decise così che per ridurre il rischio di essere visto, avrebbe lasciato la bici ad una certa distanza dal buco e avrebbe attraversato il muro di domenica mattina, prima dell'alba.

Il giorno arrivò e si preparò al grande evento.

Quando le prime luci illuminarono il bosco Mino restò di stucco.

Un tappeto verdeggiante ricopriva il suolo, fiori violetti sbocciavano ovunque e un torrentello trasparente ricco di erbe radicate sul fondo gorgogliava lento tra i fusti degli alberi. Se gli edifici del complesso industriale lo proteggevano dall'invadenza urbana, il lungo muro perimetrale impediva ai suoni di filtrare all'interno. Così, il bosco risultava protetto su tre lati mentre l'ultimo era chiuso da una collina brulla, alta forse un'ottantina di metri, che aveva ospitato una cava di sassi.

Si trattava di una "enclave", un luogo che era rimasto isolato e che per almeno tre decenni non aveva subito alcuna ingiuria da parte degli esseri umani.

Mino camminò in lungo e in largo tra la vegetazione e si dedicò a scoprire ogni angolo di quell'oasi di pace. Gli pareva impossibile che tutto questo fosse vero e nei giorni che seguirono cercò di documentarsi sulla storia della fabbrica. Tra i volumi della biblioteca trovò quello che c'era da sapere: l'anno di costruzione, di chi era la proprietà, le vicende che portarono al fallimento e alla chiusura. In particolare, osservando le carte relative allo stabilimento, vide che l'area occupata dal bosco si estendeva per quasi sei ettari.

Quando tornò sul posto chiuse il portone del magazzino con una robusta catena d'acciaio: un buon modo per garantirsi la riservatezza di cui aveva bisogno. Portò anche un panino, il succo di frutta e una borraccia d'acqua, in quanto aveva deciso che vi avrebbe trascorso tutta la giornata.

Come la primavera avanzava, così avanzava il suo desiderio di tornare nell'oasi sempre più spesso. Decise pertanto di comprare una piccola tenda da campeggio in modo da potervi rimanere anche la notte e passarvi tutto il fine settimana. Ne voleva una verde, in modo da essere ben mimetizzato ma alla fine ne trovo un marrone e la adattò mettendoci sopra delle frasche. Era perfetta e dall'alto, sotto la volta degli alberi, sarebbe risultata invisibile.

Vi portò un sacco a pelo, un pentolino, delle provviste e un fornellino a gas.

Quando era al lavoro pensava al bosco e quand'era nel bosco sentiva tutto il peso di dover tornare al lavoro e al suo appartamento. "Che cosa ci vado a fare ?" iniziò a chiedersi con insistenza.

Le settimane passavano e più Mino trascorreva il suo tempo tra gli alberi più imparava a conoscere chi abitava quel luogo. Scoprì dove si trovava il nido del picchio verde che ridacchiava senza ritegno, osservò quali specie di uccelli frequentavano le cime degli alberi e quali gli arbusti, provò a classificare i numerosi insetti volanti, le rane e gli invertebrati che vivevano nel corso d'acqua, si deliziò guardando le farfalle di giorno e le falene di notte, illuminate dalla pallida luce della luna.

Trovò la tana di una coppia di tassi e seguì le vicende della famigliola quando questa iniziò a portare a spasso i cuccioli e restò ben sorpreso quando una sera, in una piccola radura di erba fresca e invitante, vide un capriolo maschio, dal corpo agile e armonioso. "Da dove era venuto?" si chiese. L'unica risposta possibile era che fosse sceso dalla brulla cava di sassi oltre la quale si estendeva la campagna che confinava con la città. Da lì dovevano essere arrivati anche gli altri mammiferi o almeno la maggior parte di loro. La fulva volpe che non aveva paura di lui, la faina, il ghiro, la coppia di tassi per l'appunto e ora anche il capriolo. La collina fungeva da portale o meglio da corridoio, era uno spazio sufficientemente inselvatichito che permetteva a questi animali di colonizzare un nuovo ambiente adatto ad accoglierli.

Con l'avanzare della bella stagione il caldo in città si faceva sempre più insopportabile ma il bosco di Mino garantiva frescura, aria pulita e ancora abbondanza d'acqua. Quando arrivò il momento delle ferie riempì uno zaino di roba da mangiare, attraversò in piena notte il buco nel muro, lo chiuse dall'interno con delle assi e si rifugiò nel suo eremo. Vi passò i giorni più felici della sua vita, nel corso dei quali ebbe modo di conoscere a fondo quel posto, di divenirne parte, di assimilarne l'essenza.

Ne approfittò per rileggere "Walden" di H.D. Thoreau, le poesie di Withman e quelle di Tagore, portò con sé un manuale da naturalista, dimenticò l'orologio e i tempi che scandiscono la vita degli esseri umani. Si rese conto che nel bosco scorreva un tempo completamente diverso e che altre leggi ne regolavano il funzionamento: qualcosa di sacro e di perfetto che avevamo completamente dimenticato.

Quando tornò al lavoro fu preso dallo sconforto e iniziò a pensare se non fosse stato il caso di lasciare tutto per ritirarsi nell'oasi.

Una domenica mattina mentre rassettava le sue cose dentro alla tenda, sentì un rumore a qualche metro di distanza. La frequentazione di quel luogo aveva acuito e di molto i suoi sensi, tanto che pure la vista gli sembrava alquanto migliorata.

Si acquattò dietro un cespuglio e poco dopo vide la sagoma di due ragazzini che percorrevano il sentiero che lui stesso aveva aperto. Lui indossava una camicia a scacchi, jeans bucati, scarpe da ginnastica bianche e aveva uno sguardo acuto che sprigionava una impellente voglia di crescere. Lei aveva un volto dolce, lunghi capelli castani, una voce delicata e i modi gentili di chi si sente a proprio agio nella natura. I due camminavano lentamente, si guardavano attorno meravigliati e quando si fermarono presso un robusto pioppo bianco la ragazza tirò fuori due mele dallo zainetto. Mino li osservò mentre masticavano: "come erano arrivati fin lì, da dove erano sbucati ?" Dovevano avere l'età di quando lui aveva perduto i genitori. Poi i due si avvicinarono al torrentello, vi misero dentro i piedi e iniziarono a giocare, gettandosi l'acqua addosso. Sembravano felici. Dopo un po tornarono sui propri passi e iniziarono a salire per la vecchia cava con l'aiuto di una corda che avevano fissato ad una roccia per non cadere sul pendio scivoloso. Mino li osservò mentre arrancavano sulla salita finché non furono sul colmo del colle. Presso un grosso masso avevano lasciato le biciclette che subito inforcarono per scendere dall'altra parte.

Il fatto che qualcun altro si aggirasse per il bosco lo inquietò moltissimo e si chiese che cosa sarebbe accaduto se avessero trovato la tenda e le sue cose, o se peggio ne avessero rivelato l'esistenza ad amici e genitori. Si sentiva nervoso, non più libero e sereno come lo era stato fino ad allora.

Tuttavia i ragazzi non si fecero più vedere e questo lo tranquillizzò, almeno parzialmente. Passò un certo tempo e l'autunno era ormai inoltrato quando gli "invasori" si fecero nuovamente vivi. Mino li incrociò sul sentiero mentre tornava al bivacco dopo aver raccolto dei funghi mangerecci. I due ragazzi sobbalzarono e lui fece lo stesso. "Scusi signore, non sapevamo che ci fosse anche lei, ce ne andiamo subito", disse la ragazzina visibilmente spaventata mentre il suo amico le teneva stretta la mano.

"Che cosa fate qui?" disse Mino, "questo è un bosco privato e io sono il custode".

Poi ci pensò su un attimo e messa da parte la sua irruenza, si chiese se fosse giusto impedire ai quei due di stare lì: in fondo anche lui non era un abusivo, uno che si era infiltrato in una proprietà d'altri seppure abbandonata ?

"Se volete..." disse allora, "potete restare ma a delle condizioni."

Sedettero su un tronco caduto e iniziarono a parlare. Mino chiese i loro nomi e i due risposero che si chiamavano Mirko e Angela: sembravano una coppia affiatata e forse lo erano. Quindi "il custode" spiegò loro che quello era un posto magico e che era un assoluto privilegio poterlo frequentare. Gli raccontò degli alberi, dell'acqua e dell'aria, degli animali che lo abitavano, di come si poteva apprezzare il silenzio, la luce, la pace di quel piccolo regno incontaminato e come fosse necessario portargli assoluto rispetto. I due lo ascoltavano senza far trasparire alcuna emozione e perciò non si capiva se fossero sinceramente attratti da quello che diceva o se considerassero quel giovane uomo come un povero matto.

Poi, dopo qualche minuto, la tensione si sciolse e i due iniziarono a fare domande a cui Mino rispose con estrema precisione. Quando si congedarono avevano convenuto che nessun altro e per nessuna ragione doveva venire a sapere di quel posto segreto. I ragazzi erano i benvenuti ma a patto che non recassero alcun danno, si presentassero ad una determinata ora della domenica e che non restassero nel bosco per più di due ore. I tre si strinsero la mano e siglarono in questo modo il loro accordo.

Dopo l'autunno arrivò l'inverno e gran parte degli alberi persero le foglie, così Mino spostò il bivacco sotto un grosso pino in modo da proteggerlo dalla pioggia e dagli sguardi indiscreti che potevano arrivare dall'alto. I ragazzini furono rispettosi delle regole e si presentarono come convenuto e neppure tutte le domeniche. Mino li prese in simpatia e di volta in volta mostrò loro tutto quanto c'era da sapere sul bosco.

Poco prima di natale la neve cadde sul terreno indurito dal freddo e il luogo assunse un aspetto insolito, in cui risaltavano le orme degli animali e i frutti vermigli dell'agrifoglio e del pungitopo. Nonostante il gelo, anche la sera della vigilia Mino decise di dormire nella tenda: si preparò una cenetta con tanto di panettone, quindi si infilò nel sacco a pelo e si tirò addosso una pesante coperta di lana. A mezzanotte sentì la campana della chiesa del quartiere che richiamava i fedeli e pensò a quella che era stata la sua fanciullezza , a quello che era diventato, a che cosa gli avrebbe riservato il futuro. Poi respinse un brivido e si addormentò.

Un venerdì di fine di gennaio il quotidiano locale pubblicò la notizia che la società che aveva acquistato la vecchia fabbrica della gomma aveva ottenuto i permessi per costruirvi un centro commerciale. Un suo collega ne aveva parlato durante una pausa sul lavoro aggiungendo: "Era l'ora, almeno quel posto pieno di topi sarà riqualificato e vuoi mettere la comodità di avere un centro commerciale nel quartiere ?" Mino non credeva a quanto aveva udito e iniziò a tremare. Chiese al direttore di uscire prima del previsto e si recò subito al cancello d'ingresso dove scoprì che, quella stessa mattina, qualcuno aveva sistemato un cartello con su scritto: Nuova Intermedia Costruzioni - avvio lavori 20 febbraio- .

Cadde a terra svenuto. Lo soccorse un passante e poco dopo si riprese: chiese scusa per l'incomodo, congiunse le mani e abbassò la testa in segno di ossequio e di ringraziamento, salì sulla bici e si allontanò in tutta fretta.

Da lì a un mese le ruspe avrebbero fatto il loro ingresso nell'opificio, demolito le muratore non utili e soprattutto avrebbero raso al suolo il bosco per farne un parcheggio, un campo da golf e uno spazio giochi per i bambini dei clienti.

Stava tutto scritto a chiare lettere nel progetto approvato dal Comune e apparentemente non c'era nulla che egli avrebbe potuto fare per impedire il compiersi di quel destino. Durante la notte non chiuse occhio e al mattino seguente non andò a lavorare dimenticandosi perfino di avvertire il direttore. Anzi, decise che da quel giorno non sarebbe andato più a lavorare, ne sarebbe tornato nell'appartamento. Si rifugiò nel bosco uscendone solo qualche volta in piena notte per andare a comprare qualcosa da mangiare in un negozio sempre aperto. Era in preda ad una crisi senza precedenti e non si dava pace per quello che stava per accadere. La domenica mattina Mirko e Angela si presentarono all'appuntamento e lui, in lacrime, li informò della pessima notizia. I ragazzini cercarono di consolarlo e pensarono a che cosa avrebbero potuto fare per impedire lo scempio. L'idea fu quella di parlarne a scuola con i professori, mostrare un video del bosco, insomma rivelare la sua esistenza perché qualche autorità potesse impedirne la distruzione. A quel punto, il piccolo paradiso nascosto sarebbe divenuto di dominio pubblico ma se questo era il prezzo da pagare per poterlo salvare, ebbene anche il suo custode ne avrebbe accettato le conseguenze.

I tre concordarono sul da farsi e si salutarono.

Mino trascorse inconsapevolmente la sua ultima notte in tenda poiché non poteva sapere che la ditta a cui erano stati affidati i lavori, aveva ottenuto di poterli iniziare prima del previsto. Così, il lunedì mattina, alle otto in punto, il meccanico fracasso di due ruspe e di un camion, squarciò l'aria insozzandola di gas puzzolenti. Quando gli uomini della ditta si affacciarono sul bosco pronti per farlo a pezzi, si trovarono però di fronte il piccolo, magro e occhialuto archivista di periferia.

Quello che doveva essere il capocantiere gli disse: "che ci fai qua, questa è proprietà privata e noi dobbiamo iniziare ad abbattere le piante".

"Io non mi muovo" rispose lui con tono fermo, irremovibile, " e voi non taglierete un bel niente." Gli operai si guardarono perplessi e quando il capocantiere varcò il limite considerato invalicabile, Mino si arrampicò lesto sopra un albero, salendo fin quasi sulla cima. "Io non mi muovo" ribadì a tutta voce, "sappiate che niente al mondo mi farà scendere se non un documento firmato dal Sindaco in cui ci sia scritto che il bosco non sarà tagliato."

A quel punto l'armata meccanizzata si fermò e dopo una breve consultazione il capo telefonò ai carabinieri. In poco tempo la notizia si diffuse. "Alla vecchia fabbrica c'è uno che ha bloccato le ruspe... dice che è il custode di un bosco sacro... è salito su un albero e ha giurato che non scenderà."

Con il passare del tempo, una piccola folla di curiosi si assiepò all'ingresso e i carabinieri fecero non poca fatica a tenerla fuori dalla proprietà.

"Vogliamo vedere !" gridava la gente. Arrivarono anche i giornalisti, i pompieri e un'ambulanza.

Il timido, ossuto e combattivo Mino Santucci stava per diventare una celebrità quando avvenne il fatto. Si sentì il suono di uno schianto, si vide il ramo su cui era seduto spezzarsi in due e poi il suo corpo piombare giù da un'altezza di dieci metri. Cadde di schiena, nel peggiore dei modi e non ci fu nulla da fare. Quando i paramedici provarono a soccorrerlo già gli usciva un filo di sangue dalla bocca. Guardava in alto, verso la chioma degli alberi e verso il cielo sgombro di nuvole, con un accenno di sorriso, come quello di chi ha scoperto il senso della vita e che non ha timore di lasciarla. Chiuse gli occhi e quando il suo cuore lanciò l'ultimo battito, si dice che un silenzio sovrumano si posò sull'intera città, che gli uccelli smisero di cantare e che il vento calò d'improvviso.

Alla scena avevano assistito Mirko e Angela che avuta la notizia di quel che stava accadendo, avevano lasciato la scuola ed erano scesi con la corda lungo il pendio della cava. Angela si infilò tra i presenti e si gettò su Mino piangendo: un istante dopo Mirko fece lo stesso. Gli adulti non capivano. Non realizzavano da dove erano arrivati quei due ragazzi e che rapporto ci fosse con quell'uomo.

Un reporter scattò delle foto e poco dopo comparirono su un quotidiano on-line.

Quando il magistrato autorizzò la rimozione del cadavere, oltre un migliaio di persone si erano radunate fuori dalla fabbrica: qualcuno si era procurato dei fiori e quando l'ambulanza che trasportava il corpo di Mino si mise in strada, i fiori volarono sull'automezzo come una colorata pioggia di primavera fuori stagione.

Mino Santucci, non avendo nessuno che reclamava il corpo, fu sepolto nella porzione del cimitero dove nessuno recitava una preghiera.

Due giorni dopo, la classe di Mirko e Angela si presentò davanti al cancello della fabbrica. Era accompagnata dagli insegnanti e aveva uno striscione con scritto: NON ABBATTETE IL BOSCO DI MINO".

Angela, sopraffatta dalle lacrime, teneva in una mano gli occhiali del suo amico e nell'altra il diario che "il custode" aveva nascosto nella tenda e in cui aveva scritto tutti i suoi pensieri sul bosco.

Da quel giorno e per i giorni che seguirono, centinaia di ragazzini appesero al cancello cartelli, nastri e omaggi di ogni tipo, chiedendo che il bosco non fosse abbattuto ma diventasse uno luogo pubblico per il quartiere. Ai giovani si unirono molti cittadini, le associazioni ambientaliste e quelle culturali, i piccoli commercianti e gli artigiani, le mamme che reclamavano a gran voce spazi verdi per i loro bambini. Per Mino e per il suo bosco si mobilitarono anche nel resto della città, in una protesta che divenne sempre più ampia e rumorosa. Venne il giorno delle elezioni e fu eletto sindaco il candidato che si era impegnato a riconsiderare tutto il progetto. Alla fine dell'estate si trovò un accordo e fu deciso che al posto del centro commerciale potevano essere realizzate delle abitazioni circondate dal verde e con una volumetria ben inferiore a quella prevista in un primo tempo ma, soprattutto, fu messo nero su bianco che il bosco sarebbe stato protetto e che sarebbe diventato patrimonio di tutti.

Ah dimenticavo, dove Mino cadde c'è ora una targa che riporta queste parole.

"A Mino Santucci, il custode dell'ultimo paradiso di questa città."




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