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Perché odiamo la Natura

L'essere umano odia la Natura ?


E' una domanda che è legittimo porsi considerando la grave crisi ecologica planetaria che investe questo periodo storico e che non ha precedenti, in quanto provocata dall'azione della nostra specie.Se si guarda alla definizione del termine Natura sui principali dizionari, troviamo risposte non univoche ma dalle quali emergono con chiarezza i termini e i concetti di ordine, leggi, principi.Si riconosce dunque che quando si parla di Natura si ha a che fare con qualcosa di sovraordinato, di immanente, di precostituito, con qualcosa che ci precede e che ci seguirà, che ci irretisce in dinamiche dalle quali non si può prescindere.Dato questo presupposto, risulta significativa la circostanza per cui l'idea di una Natura associata a Dio o di una Natura comunque oggetto di contemplazione spirituale, appare, quando appare, solo nelle note che seguono la definizione principale, finendo spesso per essere relegata in un paragrafo dedicato alla teologia.E' chiaro che il significato delle parole si aggiorna con il mutare dei tempi e nel nostro caso, ciò che emerge è che nella cultura del mondo occidentale contemporaneo, la concezione della Natura assume la connotazione di un sistema complesso e autoregolato ma svincolato da ogni concezione non strettamente materialistica.Ne consegue che se la Natura non ha affinità con il mondo spirituale e di conseguenza con il sacro, questa rientra esclusivamente in una sfera fisica con cui la specie umana può avere un rapporto non mediato, non subordinato, in cui la nostra azione tesa a "intaccare" o meglio a "infrangere" le leggi che la regolano, non solo risulta possibile ma addirittura auspicabile.In un articolo apparso molti anni fa sul quotidiano La Stampa, Primo Levi, scrisse con molta chiarezza che la nostra specie aveva puntato tutto sulla sopravvivenza individuale, relegando la Natura a palcoscenico della nostra esistenza.Niente di più vero se consideriamo che gli strumenti offerti dal progresso scientifico e tecnologico hanno concesso ad una parte dell'umanità di vivere, o quanto meno di provare a vivere, "al di sopra" delle leggi naturali. Il confronto con tali leggi è sempre stato aperto e praticamente in ogni cultura compare nei miti dell'antichità, tuttavia è nel pensiero occidentale inteso in senso ampio che tale confronto si è manifestato più apertamente.L'idea di una Natura concepita come limite alle aspirazioni e ai desideri umani e quindi come costante "antagonista", ovvero come un qualcosa contro cui bisogna battersi, ha qui seguito una particolare evoluzione ed è all'origine del pensiero economicista globale. La contemporaneità è dunque contraddistinta da una nuova realtà che dimostra come l'eterno conflitto possa essere affrontato con mezzi adeguati, anche se non conclusivi e anche se non disponibili per tutti.Benché ancora immersi nel “limbo” della pandemia provocata dal nuovo virus, l'essere storicamente riusciti a combattere e a vincere alcune importanti battaglie di questo costante confronto, ha ingenerato nell'essere umano una eccezionale fiducia in sè stesso, uno stato di vera e propria esaltazione.E' ovvio che per una lunga serie di ragioni, non c'è e non può esserci alcun tipo di dominio totalizzante da parte della nostra specie nei confronti della Natura ma questa, oggi, appare la sensazione diffusa, la fantasticheria condivisa, anche di fronte al collasso degli ecosistemi e al crescente rischio che altre zoonosi particolarmente insidiose possano manifestarsi nei prossimi anni.Nel 1864, riferendosi alla colonizzazione europea che aveva trasformato il paesaggio americano convertendolo in una terra di insediamenti agricoli, Henry David Thoreau scrisse: “Quando penso che qui gli animali più nobili sono stati sterminati: il puma, la pantera, la lince, il ghiottone, il lupo, l’orso, l’alce, il cervo, il castoro, il tacchino e altri ancora, non posso che sentirmi come se vivessi in un paese addomesticato ed evirato rispetto al suo stato originario”.

Chissà come il naturalista e filosofo americano descriverebbe oggi la mostruosa perdita di biodiversità che sta determinando la sesta estinzione di massa o la monumentale quotidiana mattanza che viene perpetrata negli allevamenti industriali per l'appunto definiti "moderni".Mantenendo una prospettiva storica, si può affermare che a creare i presupposti della situazione attuale sia stata una "forzatura culturale" alimentata da un sottofondo antropocentrico rafforzato dallo scientismo che si è originato nel periodo del determinismo positivistico. Assoluta fiducia nel “destino” dell'umanità e “scienza senza coscienza”, per semplificare.Oggi, la distanza tra le aspettative del modello di vita che possiamo chiamare "dissipativo, eterotrofo e tendenzialmente abiotico" e la costante ricerca di equilibrio tipica delle dinamiche naturali, non è mai stata tanto grande.Se escludiamo una parte assolutamente minoritaria di individui, tutto il resto dell'umanità, seppure a vari livelli, si è ormai trincerato dietro le mura offerte dalla cittadella di una modernità che guarda solo a sé stessa, sganciata dai limiti che per millenni hanno costretto a poca cosa le azioni umane: una umanità che si guarda allo specchio e che si compiace. Del resto, almeno nei Paesi della cosiddetta economia avanzata, questo è il tempo in cui diamo tutto per scontato come l'abbondanza di energia che utilizziamo o del cibo che mangiamo, facendo finta di non sapere che questo stile di vita ha pesantemente intaccato il capitale naturale del pianeta, ha manomesso i servizi ecosistemici e che ciò di cui la parte ricca del mondo dispone oggi non sarà per niente garantita in un futuro molto prossimo.

Sia chiaro, quando si affronta questo tema non ci si può riferire genericamente all'umanità in quanto tale, perché il ricco commerciante e lo speculatore di una multinazionale non possono e non devono essere equiparati con un contadino di una delle innumerevoli regioni povere del mondo o con un precario dei luoghi sempre più impoveriti del primo mondo: è fin troppo evidente che l'impronta ecologica e sociale del primo è straordinariamente più grande e più pesante di quella del secondo e ciò chiama in causa la dimensione politica del problema.Allo stesso modo, ragionando su questo tema non intendo esaltare la vita primitiva, l'adorazione del mito del buon selvaggio, sebbene la tentazione esista: sto solo interrogandomi per proporre una riflessione su come questo atteggiamento sia causa di una crisi senza precedenti che per l'appunto si presenta sia come crisi ecologica ma anche come crisi economica, intellettuale e morale.L'origine dei guai che abbiamo provocato sta proprio in questo progressivo allontanamento dal sentirci parte di un tutto che si manifesta nelle leggi e nei fatti naturali quanto nella capacità di vivere in modo collaborativo, solidale, equo.Del resto, se la contemporaneità offerta dal modello neoliberista tutta centrata su un percepire individualistico totalmente intriso di materialismo fa proseliti anche presso culture e modelli di società molto diversi, una ragione c'è.E' ancora Thoreau a ricordarci che "il rapporto tra l'essere umano e il mondo esterno non è fondamentalmente lo stesso ad ogni latitudine ?"Nei fatti, anche se posti a migliaia di chilometri di distanza gli uni dagli altri, stiamo vivendo un comune delirio di onnipotenza e che questo approccio sia determinato da una credenza, da una aspirazione o da un sogno fa poca differenza.Mediamente, l'essere umano contemporaneo modellato a misura di homo consumens, auto centrato e auto referente, non si interroga realmente o peggio non si interroga più, né sulla distruzione delle basi ecologiche della vita, né sulle enormi violenze che portano il nome di guerra, povertà e fame.Il punto è, come scrive Fritjof Capra, che "l'uomo moderno è consapevole di sé stesso, nella maggior parte dei casi, come un -io- isolato che vive all'interno del proprio corpo". E' un soggetto, scrivo io, che alla fine si è posto da solo in un angolo, adottando una sola prospettiva, vegetando dentro le sue assurde convinzioni.La nostra attuale inconsapevolezza riguardo agli eventi e ai cicli naturali, ovvero -il non sapere- che cosa c'è la fuori, è frutto della perdita di informazioni che fino a non molto tempo fa ci arrivavano da conoscenze antiche e dalla chiara percezione dei limiti a cui siamo soggetti in quanto esseri umani: una sperimentazione diretta che non può essere certo supplita da un documentario o da uno studio teorico, per quanto ricchi di nozioni e di esiti forniti dalla ricerca. La distanza che abbiamo messo tra noi e la Natura e il nostro odio verso di essa in quanto ostacolo alle nostre ambizioni, è frutto del nostro desiderio inconscio di affrancarci definitivamente dalle paure che filogeneticamente ci hanno condizionato.Ma, se abbiamo il coraggio di fermarci e di guardarci dentro, scopriremo che stiamo vivendo una terribile illusione, apparentemente comoda ma pur sempre un'illusione.La stessa scienza, con le tesi e le evidenze della nuova fisica, ci dice che il mondo in cui agiamo è pura apparenza e che ogni oggetto non è effettivamente separato dall'altro ma immerso in un tutto connesso e comunicante: figuriamoci dunque quale grado di realtà può avere l'idea del posto che ci siamo dati nel mondo. Questo universo vibrante che non possiamo vedere con i sensi di cui disponiamo e che è fatto di oscurità e di correlazione tra le componenti della materia che in un alternarsi di densità maggiore o minore percepiamo come pieno, come vuoto o come nulla, spazza via ogni nostra illusoria certezza di essere posti al centro del mondo vivente. In conclusione, non siamo il tutto, siamo solo una parte del tutto.Si tratta di una verità profonda, in altro modo già presente nelle culture ancestrali e che per l'appunto si manifesta con la concezione dell'unità di ogni cosa. Molte tradizioni si sono fondate su una simile concezione e hanno enfatizzato il ruolo del divenire naturale ridimensionando la figura umana e le sue aspettative. Si dice che è necessario cambiare paradigma ma che cos'è questo cambiamento se non osservare in modo radicalmente diverso le cose del mondo per cercare di comprendere che è solo la rete di relazioni tra gli oggetti che ne definisce la loro esistenza? La separazione, che guida le nostre azioni, in ultima analisi non è altro che un pregiudizio ontologico, una falsa distinzione operata dall'intelletto. Crediamo di essere ma non siamo... non in quel posto, non in quel modo.La perdita di percezione e di riflessione si configura come un male interiore che si è radicato nelle nostre viscere e che si esplicita esibendo insipienza e indifferenza, ricorso alla violenza, assenza di compassione. Se non riusciamo a razionalizzare che l'aggressione alla Natura è anche e soprattutto aggressione a noi stessi, non ne verremo fuori, o peggio, ne verremo fuori nel modo peggiore possibile.Per cambiare dovremmo in qualche modo farci da parte, lasciare spazio, ma è troppo forte la tentazione di stare al centro di tutto, o almeno di pensarlo.Troppo invadente la suggestione di poter fare a meno di ciò che è alla base della nostra esistenza: la dipendenza fisica dai processi naturali. Ma se tutto è effettivamente impermanente anche questa situazione è destinata a mutare. La domanda è come e quando.

I movimenti di pensiero e di azione che trovano fondamento nella ricollocazione della nostra specie nel contesto naturale come "parte del tutto", sia pure in una versione che non intende né ripudiare, né rinunciare almeno a parte delle utilità che comunque il progresso ci ha consegnato, al momento rappresentano una quota decisamente minoritaria della "massa umana", in quanto vivere in modo frugale e condiviso nel rispetto degli equilibri naturali, porta necessariamente con sé una rivoluzione culturale e sociale che si scontra con il modello dominante. Una visione unitaria invece che frammentata, una pratica amorevole invece che prevaricatrice, una percezione stabile piuttosto che disarmonica, sono segmenti di un percorso da ricostruire, a livello personale e come condotta sociale.Non abbiamo molto tempo per cambiare strada. Proviamo a farlo.












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